Archivi categoria: Parliamone insieme…

“Vedere soffrire la propria figlia è qualcosa che non si può descrivere”: mamma Reina racconta il coraggio di Luce

Accogliere una storia è di per sé un immenso privilegio; raccontarla è avere in dono la possibilità di narrare le corde più profonde dell’anima e dell’esistenza umana dinanzi al dolore, alla sofferenza, al coraggio, alla gioia, alla tristezza, alla forza, alle lacrime e ai sorrisi.

Perché anche in storie di grande sofferenza ci sono tenaci sorrisi ed è questo il senso profondo del messaggio di Reina Raffo, la madre di Luce, ragazza toscana con sindrome CHOPS.

Luce ha sedici anni, vive a Montecatini Terme ed ha la sindrome CHOPS, in una variante diversa da tutti gli altri casi ad oggi conosciuti.

<< La diagnosi arriva solo nel 2017, Luce ha già 10 anni – racconta Reina – il percorso di ricerca di una diagnosi è stato lungo, sofferto, a volte disperato, perché vedere soffrire la propria figlia è qualcosa che non si può descrivere, non esistono parole>>

I genitori di Luce, Reina Raffo e Luca Battiloni, attraversano momenti di sconforto tra ospedali, ricoveri, diagnosi inesatte (malattia mitocondriale generativa) e volti medici senza risposta, ma non si danno per vinti, e con forza e coraggio ricercano casi, storie, contatti. Volano negli Stati Uniti d’America al Texas Children’s Hospital di Houston e Luce ha la sua diagnosi: CHOPS. << Nel 2017 Luce è il 4^ caso riconosciuto della sindrome; oggi in letteratura medica ce ne sono solo 13 e – nella rete delle famiglie – se ne contano circa 30. Ma c’è ancora poca, pochissima conoscenza ed è importante fare informazione, sensibilizzare, fare rete per sostenere la ricerca. La diagnosi è solo l’inizio di un lungo cammino >> – risponde Reina con tono sicuro, battagliero e, mentre conversiamo, la voce meravigliosa, musicale di Luce la chiama “mamma, mi vuoi bene?; si – risponde Reina – “come l’anima?” Incalza Luce – “Come l’anima”!

Devo ammettere che la mia penna si ferma, per qualche istante, assorta nel suono della voce di Luce; penso che in quella musicalità sia custodita tutta la forza che avevo colto fino a quel momento, nelle parole di Reina.

<< Non so come sia possibile>> – risponde Reina – << ma Luce è felice, canta, gioca a fare pranzi e cene finte, si inventa personaggi, è quasi cabarettista. A volte si rende conto che alcune cose non riesce a farle, ma vince la parte allegra di lei>>

La vittoria della parte più allegra di Luce è il senso di questa storia, non è la sindrome, non è il dolore, è la vita che supera la realtà <<nell’incertezza  della diagnosi, quando ricercavamo risposte e cenni, l’unica cosa che ci interessava era che vi fosse una possibilità di vita per Luce, che non dovessimo perderla>> – << può sembrare strano, ma Luce non ci vede mai tristi, cantiamo insieme, scherziamo, facciamo battute e in questo modo insegniamo a Luce “la normalità”, che non è semplice perché – purtroppo – c’è ancora indifferenza ed anche paura dinanzi alla diversità. Ecco perché sarebbe fondamentale spiegare, raccontare, incontrare giovani, prima che genitori, volontari, operatori perché questi ragazzi non sono la patologia, sono ragazzi>> tuona convinta la mamma di Luce.

Luce ha provato tutte le difficoltà sulla sua pelle in questa strada tortuosa verso la diagnosi, le prova ancora in una quotidianità scandita da esami, terapie e centri specializzati; ha una notevole percezione ed una sensibilità straordinaria, quando deve sottoporsi ad esami invasivi e dolorosi, è lei che chiede scusa.

Per questo mondo di Luce e perché altri bambini possano essere riconosciuti in tempo con una diagnosi ed aiutati nelle cure, mamma Reina si impegna con tutte le sue forze, condividendo la storia di Luce e raccogliendo fondi affinché  la ricerca possa individuare farmaci per attenuare i sintomi.

<< Chiediamo l’aiuto di tutti e speriamo che vogliano prenderci per mano in questo percorso, dandoci supporto>>

Sono tanti i temi che affrontiamo in questa nostra conversazione, ricerca scientifica, cure, sensibilizzazione,  informazione, inclusione, ma il messaggio che Reina ci lascia è quasi più potente, ci dice che la vita può essere felice anche nel dolore e che non bisogna tralasciare – rivolgendosi alle neo-mamme- nessun segnale. Bisogna osservare, ascoltare il proprio “sesto senso mamma “ e cercare risposte, non darsi mai per vinte, condividere, raccontare, parlare.

Anche Reina e Luca, come Manuela e Gianni, i genitori di Mario, saranno a Siena alla Certosa di Pontignano, per la Conferenza Internazionale “Disorders of Chromatin and Transcriptional Regulation: Cohesin & Beyond” (13-15 maggio 2023).

Per saperne di più e non restare indifferenti!

Secondo la rete Orphanet Italia, nel nostro Paese i malati rari sono circa 2 milioni: nel 70% dei casi si tratta di pazienti in età pediatrica. In base ai dati coordinati dal Registro Nazionale Malattie Rare dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), in Italia si stimano 20 casi di malattie rare ogni 10.000 abitanti e ogni anno sono circa 19.000 i nuovi casi segnalati dalle oltre 200 strutture sanitarie diffuse in tutta la penisola (OsservatorioMalattieRareosservatoriomalattierare.ithttps://www.osservatoriomalattierare.it › malattie-rare)

RareBase è la compagnia californiana che sfrutta la tecnologia e la biologia all’avanguardia per scoprire e sviluppare trattamenti per milioni di persone in tutto il mondo che vivono con una malattia rara ; RareBase porta avanti la ricerca farmacologica per limitare gli effetti della CHOPS (Rarebaserarebase.orghttps://www.rarebase.org)

Saluto Reina e la ringrazio per parole, emozioni e sensazioni condivise, le chiedo quale sia la musica preferita di Luce, mi risponde che Luce è appassionata di Elvis Presley (Incredibile! Elvis è anche il mio mito) e che quando sono stati in America, nel 2017, l’hanno portata a Graceland, la dimora di Elvis, al numero 3734 dell’Elvis Presley Boulevard a Memphis.

Penso che Luce sia Rock, e che debba fare rumore!

Sostieni la RACCOLTA FONDI. PARTECIPA e DONA

Raccolta fondi di Manuela Mallamaci : Un aiuto per Mario e non solo (gofundme.com)

Fai Luce!

Filomena Cataldo

25 aprile, festeggiamo la storia

Oggi ricorre la Festa della Liberazione dell’Italia dall’oppressione nazi-fascista. La redazione di Sienasociale.it augura a tutti buon 25 aprile con un ricordo e una storia condivisa con noi da Cristina Rigacci, psicoterapeuta. Comunque la crediate, festeggiate e festeggiate la storia!

Dai cittina, vieni qua… che ti racconto una storia”.

Iniziava quasi sempre così ed era così più o meno ogni domenica, forse perché, anche se credo sapesse di avermi raccontato quella storia da sempre, per lui era importante farlo e per me pure. Il nostro momento di condivisione penso oggi. All’epoca ad essere onesta, oltre che per non disubbidire a mio nonno, erano più le 50 mila lire a seguire che mi beccavo a farmi gola!

Ma torniamo alla storia. Tutte le sue parole precise non le ricordo, il suo italiano era molto limitato ma per quello che mi ha insegnato, per l’uomo che è stato, per il valore della libertà che mi ha trasmesso, spero di fargli comunque onore e spero che il suo racconto possa echeggiare oggi, tra quelli di tanti, che come lui hanno scelto di voltare le spalle a quello che credevano fosse un’oppressore e di lottare per la loro libertà.

Sai cittina – raccontava – io un ci sarei mai voluto andà ma non avevo avuto scelta e con l’esercito di Mussolini eramo a Torino in quei giorni. Però arrivò lo sbandamento (8 Settembre 1943) e allora si che erano guai. Venne un generale a diccelo e si capì che se si restava e gli americani ci trovavano ci avrebbero ucciso, andà via era davvero pericoloso. Pensa se i tedeschi lo avessero scoperto, se ci avessero presi. Io e il mio amico scegliemmo comunque di tornare a casa, c’era la tu’ nonna a aspettammi e io volevo fa’ famiglia. Certo un si sarebbe fatto un bel viaggio. Pensa da Torino a Sovicille a piedi ci volle un mese e tanti un ce l’hanno fatta. Te unn’hai conosciuto il nonno dell’amico di Roberto. Lui è morto di lì a poco. Sai s’andava pe’ i boschi, ci si nascondeva nelle chiese, i preti ci aiutavano ci davano un po’ d’aiuto ma unn’era bello. Quando s’arrivò a Siena (bestemmia di rito ndr), i tedeschi un’erano proprio da noi. Ci tocco aspettà ancora e di nuovo il prete di Rosia ci dette una mano. Io so’ stato fortunato, la tu nonna mi credeva morto e invece poi ho fatto tutto.

Nonnopiù volte ho chiestoma ti chiamano Sghimme da allora?”. A questa domanda non ha mai risposto, mi piace pensare che sia così ma non lo so.

So che quando se ne è andato, nonostante fosse rimasto negli anni fedele ad un preciso ideale politico, ha voluto il funerale in Chiesa ed io c’ero. Non l’ho accompagnato al cimitero perché mi sono fatta una passeggiata in quelle campagne dove andò a riabbracciare mia nonna al ritorno dallo sbandamento. Dentro di me cantavo le sue canzoni (“Bella ciao” e “Fischia il vento“) e all’epoca come sempre, e come oggi, ringrazio lui e tutti quei “volontari per la libertà della patria” che, nel bene o nel male, nel giusto o nel torto (questo dipende da come uno la pensa politicamente) – in maniera più o meno eclatante o silenziosa (come faceva mio nonno che raccontava a pochi la sua storia), hanno comunque fatto parte di una storia ben più grande: quella dell’Italia!

Cristina Rigacci 

Fine Ramadan 2023: a Monteroni “un bambino impara quando l’amore insegna”

Ieri, 22 aprile 2023, è terminato il Ramadan che era cominciato lo scorso 23 marzo 2023. Per i musulmani di tutto il mondo le quattro settimane sono un momento sacro. Le docenti e i bambini della Scuola Comunale dell’Infanzia “Arcobaleno” hanno condiviso con le famiglie un momento di festa per celebrare questa ricorrenza insieme.

Dove c’è rispetto, inclusione, ascolto, accoglienza, integrazione, dove “un bambino impara e l’amore insegna“, dove si respira fiducia e positività, crescono i cittadini del domani capaci di offrire contributi straordinari al consolidamento di tutta la società civile. Ne sono convinte le docenti della Scuola Comunale dell’Infanzia “Arcobaleno” di Monteroni d’Arbia che in occasione della fine del Ramadan hanno voluto condividere un momento di festa insieme con i bambini e le famiglie. Ci tengono a raccontarcelo e lo fanno con gli occhi pieni di meraviglia.

Volevamo condividere – ci raccontano le docenticon i nostri bambini e le loro famiglie la fine del Ramadan, così abbiamo abbiamo organizzato un pomeriggio speciale ed emozionante, con tutti i bambini, le bambine e i genitori. Per ciascuno di noi è stato bello comunicare nelle differenze, farsi coinvolgere dall’entusiasmo di grandi e piccini. Ascoltare musica e parole lontane dalle nostre sonorità, ma che arrivano in modo semplice, emozionandoci. Scoprire una cultura, una storia e una comunità anche attraverso specialità tipiche, ci ha permesso di conoscere nuovi sapori, acquisendo una visione più ampia della realtà che ci circonda. Ci piace pensare che le nostre bambine e i nostri bambini abbiano cominciato ad intraprendere un nuovo percorso che li porti al riconoscimento e rispetto di altre tradizioni e religioni per un futuro in cui nessuno possa più sentirsi escluso.”

“Educare – ha commentato la coordinatrice pedagogica Giulia Clemente è accogliere l’unicità di ognuno, lasciarsi nutrire dalle differenze. Grazie alle famiglie che hanno partecipato e ai bambini.”

 

Una bella storia di condivisione, co-educazione e partecipazione che ci insegna che integrare non significa ignorare o nascondere ciò che non appartiene alla nostra cultura, deprivandolo dei suoi valori e significati, ma al contrario vuol dire permettergli di convivere con il meglio di tutti gli altri. Educare, ne siamo convinti, è un gesto che genera amore e quando lo si fa con uno sguardo alto sul mondo, dove esistono i diritti di tutti e non lo sforzo di andare incontro alle esigenze di alcuni, si regala ai cittadini del futuro una bussola sicura per navigare nella autentica bellezza delle nostre culture.

Emilia Di Gregorio 

Qualcuno ha gli occhi di mio padre: così lui vede ancora

Raccogliere e cogliere le testimonianze, avendo cura di ogni minima sfumatura della voce e dello sguardo, è senz’altro un dovere nei confronti di chi affida alla nostra penna la propria storia, diciamo anche le proprie storie dell’anima.

La nostra voce ha chiesto l’anonimato e noi rispettiamo. Gli daremo un nome di fantasia, sarà Mario che nella XXVI Giornata Nazionale per la donazione di organi, tessuti e cellule racconta la scelta del dono.

Mario vive in un paese alle porte di Siena, ci incontriamo e prendiamo un caffè.

Gli chiedo se ha mai avuto modo di parlare di questa sua storia – “ poche volte – risponde – non ci sono mai tornato su con intenzionalità. Questa è un’occasione

Ne siamo felici ed anche grati di averci destinato questa storia in pillole.

Quando la donazione entra nella tua vita?

“Quando viene a mancare mio padre, ma in realtà nella mia famiglia si è sempre apprezzato il gesto del dono. Ricordo le chiacchierate con i miei genitori nel commentare casi di cronaca o situazioni attinenti alla donazione. Siamo sempre stati favorevoli ed abbiamo sempre apprezzato le persone che facevano questa scelta. Il mi’ babbo – addirittura – con la sua consueta autoironia diceva che quando i suoi pezzi di ricambio non gli servono più, è giusto dare. E’ così fu.

Era l’estate del 2000, quasi tempo di saluti da vacanza, ed una mattina salutai babbo, come sempre, ma sapevo che l’avrei rivisto la mattina dopo, prima di partire per le vacanze, appunto. Non passò molto tempo che mi chiamarono a lavoro, babbo aveva avuto una emorragia cerebrale. Aveva 77 anni, era in buona salute.

All’ospedale Le Scotte dichiararono il coma, si spense, senza aver mai ripreso conoscenza, nel pomeriggio ed io e la mia mamma non abbiamo esitato, memori di quello che babbo aveva sempre detto. Incontrato il medico, abbiamo chiesto che cosa potessimo donare, che fosse in buono stato, chiaramente. Le cornee – ci fu detto – sicuramente le cornee. Devo essere sincero, avrei ancora tentato di salvarlo, nonostante l’evidente situazione. Ma la speranza, lo sai, è qualcosa a cui ci si attacca anche in modo inconsapevole, nella consapevolezza.

Era una domenica. Me la ricorderò tutta la vita.

Che cosa ti ha lasciato e come ti ha segnato “la scelta”?

“L’espianto delle cornee fu fatto subito. Dopo qualche tempo, la mia mamma ricevette una lettera di ringraziamento dall’allora Direttore Generale del Policlinico Le Scotte. Era una lettera molto sentita in cui ci ringraziavano e ci informavano che le cornee del babbo avevano dato la vista ad un paziente del Veneto, senza specificare altro.

Sono felice di aver esaudito, donando, il desiderio del babbo ed ho pensato più volte a chi ha ricevuto le cornee, mi sono immaginato i suoi occhi”.

Da genitore, in famiglia, nelle conversazioni quotidiane, hai avuto modo di trasferire con l’esempio l’educazione al dono?

In questi 23 anni siamo ritornati sul ricordo e sulla narrazione dei momenti che ci hanno condotto al finale.  Ed abbiamo cercato di portare ad esempio il gesto di babbo, del nonno. Credo che sia giunto il messaggio. In famiglia condividiamo tutti lo spirito del dono. E questo è già di per sé un dono di cui siamo grati. Siamo convinti che questo passi anche dal trasmettere valori come quelli della solidarietà. Sono vicino al mondo del volontariato ed anche se l’età media dei volontari è ancora piuttosto alta, sono convinto che siamo sulla strada dell’ampia partecipazione. C’è tanto entusiasmo. Voglio sottolineare – per la mia esperienza – l’importante sostegno e supporto dato dalle donne. Il loro contributo è davvero notevole”.

Saluto e ringrazio Mario, la sua voce è commossa e nei suoi occhi c’è parte della storia che ci ha raccontato.

Gli occhi sono una finestra e che sia sul mondo, che sia nel mondo di qualcuno, che sia oltre, rappresentano quel “sempre” di inevitabile memoria.

Qualcuno ha gli occhi di mio padre

Filomena Cataldo

 

 

Noi familiari di disabili: “La fonte per superare momenti critici”

Abbiamo spesso parlato delle associazioni nate nel tempo, degli ideatori dei progetti, degli animatori ed educatori che lavorano per il sociale… ma ci siamo mai domandati come vivono le famiglie che hanno un loro caro, affetto da disabilità? Oggi ne incontriamo alcuni.

Sandro, Riccardo e sua moglie

Riccardo ha un familiare di 60 anni, ospite a Cercina del Progetto La Fonte, da lungo tempo. “Mio fratello Sandro ha contratto la malattia mentale all’età di 20 anni e dopo un lungo e travagliato percorso sanitario, un medico ci consigliò l’inserimento in una struttura idonea segnalandoci la Cooperativa La Fonte. Ha iniziato a frequentare la struttura dal lunedì al venerdì, mentre il fine settimana viveva a casa coi miei genitori che sono stati esemplari fino all’ultimo giorno della loro vita prendendosi cura di Sandro, senza mai chiedermi niente, né addossarmi responsabilità alcuna. Purtroppo, nel 2020 mamma e babbo se ne sono andati a distanza di cinquanta giorni l’uno dall’altro, ed io mi sono ritrovato a gestire una situazione più grande di me e di cui, fino ad allora mi ero occupato solo marginalmente. I responsabili de La Fonte, comprendendo immediatamente la mia difficoltà mi sono subito venuti incontro offrendo a mio fratello la possibilità di diventare residenziale, ovvero vivere presso la struttura sette giorni su sette. Ho sentito tutta l’unione dello staff  che si è stretto a cerchio intorno a noi e soprattutto a Sandro; questo ci ha permesso di superare quel momento veramente critico”.

Da allora Sandro vive, lavora e trascorre le sue giornate con le persone della Cooperativa dandosi da fare per il mantenimento della stessa; la natura non ha giorni di pausa ed ecco quindi che gli ospiti curano il verde, raccolgono le olive, accudiscono gli animali in fattoria… Ma c’è di più: Riccardo da qualche anno è andato in pensione e da allora effettua volontariato presso la struttura “è un modo per rendermi utile e per stare nel contempo vicino a Sandro, consapevole che per qualsiasi cosa io ci sono; a volte lavoriamo insieme, altre volte ci incrociamo solo per pochi minuti e poi ci ritroviamo a pranzo insieme a tutti gli altri ospiti ed educatori. Vorrei che tutti i familiari avessero la possibilità di vivere di più l’ambiente in cui mio fratello e gli altri ragazzi lavorano; capirebbero che questa realtà non è un posteggio a ore ma è molto, molto di più: un luogo dove un gruppo coeso di operatori ed utenti azzera le diversità e crea un ambiente sempre allegro, attivo e coinvolgente; una “vita” che Sandro non avrebbe, ad esempio, se fosse a casa davanti ad un televisore per ore e ore…”.

Festeggiamenti per i 60 anni di Sandro

Gianluca invece è un ragazzo cinese di oltre vent’anni che fin da piccolo è stato affidato ad una famiglia italiana, pur conservando sempre i rapporti con la famiglia d’origine. Conosciamo Daniela, la mamma affidataria che ci racconta la malattia di Gianluca: “ha la sindrome di Prader-Willi, una malattia genetica rara causata da un’anomalia a livello del cromosoma 15 e che causa obesità sindromica, oltre ad altre patologie come il diabete, un ritardo psico-motorio e a non avere mai il senso di sazietà”.

Tutte cose che non hanno minimamente fermato Gianluca dal perseguire i suoi obiettivi e da bravo studente qual era, qualche anno fa ha conseguito la maturità artistica. “Siamo venuti a conoscenza della realtà di Cercina per casualità: un’estate in campeggio abbiamo conosciuto Massimo Brandi che era lì come accompagnatore di alcuni ospiti della struttura. Mi è subito piaciuto il suo modo di fare coi ragazzi, tanto che gli ho chiesto di poter far fare l’alternanza scuola/lavoro per Gianluca presso la sua Associazione. È nato così un rapporto che continua tuttora e a cui i responsabili del progetto vogliono dare un esemplare riconoscimento: assumere Gianluca a tutti gli effetti con un vero e proprio contratto di lavoro, riconoscendogli l’impegno e la serietà che mette in ogni cosa che fa”.

Gianluca, infatti, lavora anche nel ristorante “Casa la Valle” (sito all’interno della struttura) spiegando meticolosamente il menù, illustrando i piatti del giorno e preoccupandosi che i clienti siano sempre a loro agio e contenti.

Gianluca con la sua famiglia affidataria

Entrambi i familiari di queste persone concordano nel dire che la struttura è un luogo meraviglioso e accogliente in cui i ragazzi sono gestiti da persone che li valorizzano non facendo sentire loro la diversità. La disabilità nasconde in sé caratteristiche ormai desuete e che troppo spesso ci dimentichiamo di mettere in mostra come l’unicità, l’amore, la solidarietà. Tra di loro si aiutano spontaneamente, si confortano e sono l’uno la spalla dell’altro. E questo amore lo trasmettono quotidianamente ai loro educatori tantoché nei fine settimana appena ci sono le condizioni, educatori e ragazzi si spostano dalla struttura per una gita al mare, per fare passeggiate nelle colline fiorentine o semplicemente per prendere un gelato nel centro di Firenze con spensieratezza e serenità!

Gianluca in cucina con gli educatori

Buona vita a tutti!

Stefania Ingino

Benvenuti al Sarrocchi di Siena: gli studenti si prestano il tempo

Grazie ad un’intuizione della professoressa Vanni, è nata la “banca del tempo”. Il tutto presso l’Istituto Tecnico e Tecnologico e Liceo Scientifico delle Scienze Applicate “Sarrocchi”. L’obiettivo è sostenere studenti che hanno fragilità. Ecco 2 testimonianze 

In una società in cui le persone sono sempre più oberate da impegni, importanti o meno, in Italia sono comparse, per la prima volta negli anni 90 del ‘900, le Banche del tempo. Da allora, queste “libere associazioni tra persone che si scambiano tempo per aiutarsi nelle piccole necessità quotidiane” si sono diffuse in tutta Italia.

Possiamo definirle dei luoghi in cui si recuperano le abitudini di mutuo aiuto, tipiche dei rapporti di buon vicinato, e si sono dimostrate estremamente utili, soprattutto quando esistono condizioni problematiche nella conduzione della propria esistenza.

A Siena, c’è una scuola, l’Istituto Sarrocchi, in cui è stata istituita una “banca del tempo”. Ci racconta la genesi di questa istituzione la professoressa Michela Vanni, che di questa iniziativa è stata la prima promotrice.

Michela Vanni

Michela Vanni

 

Era l’anno scolastico 2016-2017 quando vidi un servizio delle Iene in cui si narrava dell’esperienza del padre di un ragazzo autistico che, per aiutare il figlio, aveva dato vita ad un progetto che prevedeva il “prestito del proprio tempo” al suo ragazzo, da parte di compagni “normodotati”. Da qui nacque in me l’idea di dar vita ad una “banca virtuale” dove i ragazzi normodotati investono il loro tempo a vantaggio di compagni di scuola che manifestano difficoltà relazionali. Questo investimento produce effetti positivi che arricchiscono tutti i partecipanti, facendo crescere la rete di conoscenze e di amicizie e alimentando l’autostima perché, aiutando gli altri, si accresce anche la consapevolezza dei propri pregi.”

Nella pratica, come funziona la “banca del tempo” del Sarrocchi?

“Il progetto è seguito da me e dalla Professoressa Scidà, ma condiviso con gli altri insegnanti che, nel caso lo ritengano utile, ci segnalano i ragazzi che potrebbero avere dei vantaggi se “omaggiati” del tempo dei propri compagni. Noi, a gennaio, presentiamo il progetto agli studenti delle terze e quarte liceo, che hanno un minor carico di ore a scuola e minori impegni. I ragazzi ci danno la loro disponibilità e a quel punto si formano i gruppi formati da donatori e un massimo di due riceventi. I partecipanti creano un gruppo WhatsApp e a quel punto si organizzano per uscire, al di fuori dell’orario scolastico: per andare a fare una giratina, al cinema o a mangiare una pizza insieme. I donatori del tempo restano in contatto con i prof. Tutor, per consigli e suggerimenti.”

Chi sono i ragazzi che usufruiscono del tempo offerto dalla “banca” del Sarrocchi?

Tutti, non solo i ragazzi con il sostegno, ma anche i normodotati timidi, isolati, o che semplicemente sentono il bisogno di ampliare il ventaglio delle proprie conoscenze. Soprattutto dopo il Covid e l’isolamento a cui siamo stati obbligati, il numero dei ragazzi partecipanti alla nostra “banca del tempo” è cresciuto; i donatori sono passati da una ventina, nel periodo precovid ad una cinquantina, quest’anno. Alcuni dei donatori, una volta conseguito il diploma, abbandonano il progetto, ma alcuni continuano a prestare il proprio tempo.”

Uno studente, diplomatosi diversi anni fa, che è rimasto in contatto con i suoi donatori è Luca (nome fittizio). Pensando a lui, che presentava una patologia dello spettro autistico, con difficoltà di relazione con adulti e coetanei nacque il progetto“, confessa la professoressa Vanni.

Luca, tu sei stato il primo che ha fatto amicizia grazie alla “banca del tempo” del Sarrocchi?

Sì. E’ vero, per due anni, in quarta e in quinta superiore, ho preso parte alla “banca del tempo”. Me lo aveva proposto la Professoressa Vanni alla quale chiedevo in continuazione consigli per come dovevo fare per fare amicizia senza stressare i compagni.”

In pratica, com’è andata?

“Chiedevo sempre aiuto alla Professoressa Vanni così lei un giorno mi ha spiegato che cos’era la “banca del tempo” e perché poteva essermi utile. Mi ha chiesto se volevo partecipare e io, prima non ero molto favorevole, poi mi hanno convinto così mi hanno messo nel gruppo di WhatsApp e ho partecipato a tutti gli incontri che mi proponevano, comprese le cene di fine d’anno, sia in quarta che in quinta. Nei gruppi, che erano diversi da quarta a quinta, non c’erano miei compagni, ma comunque io sono stato contento lo stesso.”

Ti è servito stare in contatto con loro?

Sì e anche molto perché sono migliorato nel mio comportamento. A parte qualche volta, ora non stresso molto le persone con cui voglio fare conoscenza. E poi, dopo il diploma, con alcuni di questi amici sono rimasto in contatto, anche se non ci vediamo spesso. Però, per esempio, alcuni di loro sono venuti a casa mia, al mio compleanno, per festeggiarmi. Quindi non ero solo. Prima, non pensavo di poter avere qualche amico e invece ora ce l’ho.”

E’ importante che ragazzi come Luca possano interagire e fare amicizia, anche al di fuori dell’orario scolastico. L’impegno della professoressa Vanni è tanto, ma i successi dei suoi ragazzi, donatori e riceventi, è tale da ripagarla dello sforzo che ogni iniziativa richiede per stare bene dentro e fuori dalla scuola.

Marina Berti

Per saperne di più

https://www.sarrocchi.edu.it/

 

 

 

Giada in una foto recente con sua madre

Storia di amore e di adozione. “Enea ti auguro l’amore che ho avuto io”

“Io non voglio, non posso e nemmeno sento la necessità di andare a scavare nel vissuto e nel passato di chi mi ha dato la vita e luglio dell’86 ha scelto per me la via dell’adozione. Questa persona, della quale so anche qualcosa, non ha mai generato in me nessun sentimento, non in positivo, non in negativo ma posso eternamente esserle grata per due cose: mi ha dato la vita e mi ha permesso, scegliendo di darmi in adozione, di avere due genitori meravigliosi e una straordinaria famiglia“. Così scrive Giada Da Frassini una senese che, traendo esperienza dalla propria esperienza personale, rivolge il suo pensiero sulla vicenda di attualità che sta scatenando il dibattito in Italia:  quella del piccolo Enea. Giada ha vissuto sulla sua pelle Ed è proprio a lui che le sue parole si rivolgono. Sienasociale.it ringrazia Giada per aver voluto raccontare. Ecco le sue parole.

Giada piccolissima con suo padre

Giada piccolissima con suo padre

“Perché se i figli naturali sono molto desiderati e qualche volta nemmeno quello, un figlio adottivo è desideratissimo sempre perché la sua mamma e il suo babbo per poterlo stringere fra le loro braccia hanno fatto un percorso spesso tanto lungo e difficile…”. Scrissi così nel primo tema di prima media quando la mia insegnante di allora ci chiese di raccontare del giorno in cui eravamo nati, “allegando se possibile qualche foto”.

E no. Le foto non ce le avevo ma sapevo un sacco di cose perché la mia mamma e il mio babbo mi hanno sempre raccontato tutto quello che avevano saputo quando erano venuti a prendermi all’Istituto per la protezione e l’assistenza all’infanzia di Livorno.

Documenti e pigiamino gelosamente da sempre custoditi come un tesoro prezioso a imperitura memoria di tutta la strada che abbiamo fatto per incontrarci finalmente.  Nata 8 marzo 1986, il 30 ottobre dello stesso anno posso dire, che sono nata la seconda volta, nell’esatto istante in cui i nostri occhi si sono incontrati. Con loro i miei adorati nonni materni.

Giada piccolissima con sua madre

Giada piccolissima con sua madre

Ancora vive in me le parole nella lettera che la mia cara nonna Anna mi scrisse per i miei 18 anni “fra i milioni di domande che ci ponevamo, c’era quella dove ci interrogavamo se ti si sarebbe piaciuti o meno, poi ti abbiamo vista e ci hai sorriso a tutti, senza nessuna paura, senza timore…”.

Chissà quante persone avevo incontrato, nei miei primi mesi di vita, quanto avevo magari pianto senza che nessuno si prendesse cura di me perché magari non era possibile in quel momento. In cuor mio credo di aver sentito fin dal primo momento che erano la mia famiglia, la mia casa.

La mia vita, al momento in cui sono venuti a prendermi è cambiata innegabilmente e sono stata travolta da un amore che ancora oggi mi accompagna. Io non voglio, non posso e nemmeno sento la necessità di andare a scavare nel vissuto e nel passato di chi mi ha dato la vita e luglio dell’86 ha scelto per me la via dell’adozione. Questa persona, della quale so anche qualcosa, non ha mai generato in me nessun sentimento, non in positivo, non in negativo ma posso eternamente esserle grata per due cose: mi ha dato la vita e mi ha permesso, scegliendo di darmi in adozione di avere due genitori meravigliosi e una straordinaria famiglia.

Se avesse scelto immediatamente di darmi in adozione, sarei diventata figlia dei miei genitori prima, ma poco importa, lo ero già prima di venire al mondo, ogni volta che mi sognavano, mi attendevano e con pazienza si preparavano al giorno in cui sarei arrivata nelle loro vite. Anche quando si parla di adozione servono delicatezza e tatto. Nei confronti di tutte le parti coinvolte. 

Caro Enea, che tu abbia tutto l’amore che meriti.

“I gittatelli di Siena” storia di figli senza genitori: “io pronipote di una gittatella”

Lasciare un figlio, talvolta, può salvargli la vita. Storie di abbandono ma anche di sofferenza e umanità che attraversano il tempo anche nella città del Palio. I “gittatelli”, come si chiamavano a Siena, sarebbero vissuti come “figli dell’ospedale” fino ai diciotto anni se maschi, mentre alle ragazze veniva data una dote per il matrimonio…

E’ notizia fresca di cronaca che una madre ha lasciato un neonato (non per strada, non al freddo, non esposto a pericoli) ma al sicuro, nella culla termica dell’ospedale Mangiagalli di Milano, approntata proprio per casi del genere. E non sempre si tratta, oggi come in passato, di disaffezione o crudeltà o insensibilità. Una donna può trovarsi sola, in difficoltà di vita, economiche o chissà quali traumi sta vivendo. Eppure pensa al figlio, a portare a termine la gravidanza, a lasciarlo dove verrà accudito e le verrà data una famiglia. Che potrà dare lui un futuro. Facile giudicare. Difficile capire. Ed è stato così da sempre.

Se guardiamo alla nostra storia fin dal Duecento l’ospedale senese di Santa Maria della Scala accoglieva i bambini che le famiglie di origine (per i motivi, già allora più disparati: la povertà innanzitutto) non avrebbero potuto mantenere. Si chiamava la “pila”, prima, la “ruota”, dopo, il meccanismo posto fuori dall’ente caritativo dove, in genere di notte protetti dal buio, si lasciava l’infante ad un destino, se ci pensiamo, migliore di altri (e questo avveniva e, avviene ancora, in molte città). Nel momento in cui un neonato veniva affidato alla misericordia dell’ospedale di Santa Maria della Scala un frate lo accoglieva e annotava subito tutti i particolari che potevano essere utili per consentire al nuovo venuto il mantenimento della sua identità e alla famiglia di poter riconoscere, magari un giorno, il proprio congiunto. In appositi registi si segnano, così, la data di ingresso in istituto, l’ora del ritrovamento, le caratteristiche fisiche, l’età indicativa. Si specificano, inoltre, le condizioni fisiche e si fa un inventario dettagliato delle vesti e di ogni altro oggetto che il bambino ha con sé.

Gli oggetti lasciati addosso agli esposti, talvolta numerosi, sono dei generi più disparati: pezze, fasce, medaglie, monete, oppure bigliettini (i cosiddetti “polizzini”) dove si può trovare indicato se il bambino è stato già battezzato, il luogo di provenienza, oppure si raccomanda a chi lo troverà di prendersi cura di lui, o, ancora, si scrive se ha già un nome.

E poi veniva dato a balia per essere allattato e cresciuto fino ai tre anni, gli veniva assicurata un’istruzione (ai maschi come alle femmine), una formazione professionale e un lavoro. I gittatelli, come si chiamavano a Siena, sarebbero vissuti come “figli dell’ospedale” fino ai diciotto anni se maschi, mentre alle ragazze veniva data una dote per il matrimonio.

Abbandonare non è mai facile, per i genitori dei gittatelli del Santa Maria, per la donna che ha lasciato Enea nel 2023 alle cure di un ospedale milanese. Sofferenze di ieri ed oggi che portano in sé dolori che non possiamo immaginare. Né giudicare. Ma ecco che un welfare che continua a funzionare e ad accogliere offre a quel bambino una speranza di una buona vita. E questo, ammettiamolo, si deve anche alla sua mamma.

Ah, io sono pronipote di una gittatella. Nell’alta Toscana, nell’ospedale di Altopascio, a fine Ottocento, viene abbandonata, neonata, Virginia Gingetti. Sposò, poi, Felice Novelli, conosciuto perché era andato in quella zona in cerca di lavoro. Da loro nacquero Silvano, Guido, Gino, Maria, Agostina e Gualtiero. Gualtiero è il padre di mamma Marusca. Mio nonno. Le stesse esistenze di molti di noi sono legate a storie di abbandono. Ed è solo perchè loro sono stati “salvati” e “allevati” da ospedali, e poi da altre famiglie, in ogni declinazione che queste esperienze comportano, noi siamo nati. E nelle lor storie di esposti stanno le radici di quello che oggi siamo noi e del sangue che scorre in molte delle nostre vene.

E sarà così anche per Enea. Buona vita piccolo.

Maura Martellucci

“Io abbandonata e malata sono rinata” la storia di Laura

La rinascita di una donna sola e malata: anche dopo un abbandono. La storia di Laura

La Pasqua, festa di resurrezione, evoca anche in chi non pratica la religione una condizione di rinascita. E la rinascita può essere interpretata in molti modi. Per Laura (la chiameremo così per preservare la sua privacy) la Pasqua di quest’anno ha un sapore particolare, di rinascita, appunto. È lei stessa a raccontare.

Era l’estate del 2017 e un giorno, senza alcun segnale di preavviso, almeno per quanto io ne avessi avuto sentore, il mio compagno, il padre dei miei figli, mi ha comunicato che se ne sarebbe andato di casa. Lui viveva quasi tutta la settimana lontano e questo, forse, aveva minato il nostro rapporto, ma io, che ero ancora innamorata come quando lo avevo conosciuto, non me ne ero resa conto. In ogni modo aveva cancellato il mio mondo con un colpo di spugna. Dovetti rimboccarmi le maniche, per me e per i figli, ma se la mente mi imponeva di essere forte e razionale, il mio corpo non ne voleva sapere. Non erano passati sei mesi e, ad una visita di routine, il ginecologo storse il naso, mi chiese di fare un paio d’esami in più e quando fu certo del responso mi telefonò. Era il giorno di Pasqua del 2018.”

Cosa ti comunico’, in quel giorno di festa?

Era il mio ginecologo da anni, mi conosceva bene e senza giri di parole mi disse che un cancro aveva aggredito il mio apparato riproduttivo.”

Quale fu la tua reazione?

Scoppiai a piangere, ma non ero stupita. Quando il mio compagno mi aveva annunciato che se ne sarebbe andato, avevo avvertito quelle parole come un pugno, proprio all’altezza dell’utero. Quando mi fu detto che il giorno successivo dovevo raggiungere l’ospedale, per la preospedalizzazione, avevo paura e anche un po’ di rabbia. Piangevo e pensavo che la mia vita non aveva senso e che non valeva la pena di combattere.”

Invece diventasti una guerriera.

Per fortuna accanto a me c’erano persone che non mi hanno concesso il lusso di arrendermi. Il mio ginecologo fece carte false per operarmi il più presto possibile e asportare tutto ciò che il tumore aveva aggredito. Poi, però, ci sono stati mesi di chemioterapia e al dolore per la perdita del mio compagno, si aggiunse quello provocato dal trattamento chemioterapico.”

Come vivesti i mesi successivi?

Male, ero sempre stanca e fin dalla prima seduta di chemio iniziai a perdere ciocche dei miei folti capelli neri, ma non aspettai che cadessero spontaneamente. Una mattina, piangendo, mi rasai a zero. In quel momento seppi che volevo salvarmi, nonostante la fine del mio rapporto.”

Cosa ti dava quella forza?

Volevo farlo per me, oltreché per i miei figli. Uscii e andai a comprare una parrucca, non del mio colore corvino, ma biondo platino. Fu quando scelsi quel colore che inizió la mia rinascita. Ero certa che sarei vissuta, rinata, ma diversa.”

Rinascere ed essere diversa: è stato possibile?

Per mesi mi sono sottoposta al trattamento di chemioterapia, sono dimagrita fino a diventare pelle e ossa, per molte volte mi sono dovuta recare in ospedale per fare le tac con mezzo di contrasto e, ogni volta di più, i medici faticavano a bucare le mie povere vene ispessite da tutto quel veleno che mi buttavano in corpo per annientare il rischio di recidive. Andavo quasi sempre da sola, ma man mano che il tempo passava, sentivo crescere in me una grinta che non avevo mai pensato di avere.”

Come affrontasti questo dramma, con i tuoi figli?

Loro vivevano con me; per il padre erano solo un impaccio: voleva essere libero di fare ciò che non aveva fatto fino ad allora. Ma io non volevo privarli della loro giovinezza e così non li coinvolsi mai in questo doloroso percorso.”

Quando hai iniziato a vedere il sole, dietro le nuvole?

Dopo poco più di un anno, il trattamento di chemio fu interrotto: causa COVID tutte le terapie non strettamente necessarie furono rinviate. Per fortuna, proprio in quei giorni avevo ricevuto la notizia che finalmente era giunto il momento di smettere la chemioterapia. Ero una persona ad alto rischio, con la difese immunitarie praticamente azzerate, ma mi sentivo una leonessa per aver sconfitto il cancro.”

Finalmente potevi essere realmente felice…

In realtà non riuscivo ad esserlo pienamente. Non era ancora rimarginata la ferita inferta dal mio compagno, al momento dell’abbandono. Ma anche su questa dipendenza ho cominciato a lavorare: dovevo imparare a vivere per me stessa e non era facile perché ero cresciuta con l’idea di essere viva per essere una moglie e una madre. Ma ora che i figli erano cresciuti dovevo pensare a me. È stato complicato: c’erano ancora mille legami che mi tenevano incatenata alla mia vita precedente. Ho dovuto tagliarli uno ad uno. E ogni volta era un piccolo lutto. E intanto, ogni sei mesi, tornavo in ospedale per accertarmi che il mostro non fosse tornato. Ma poi, dopo cento battaglie, oggi posso dire di aver vinto la guerra.”

Perché proprio oggi dici di aver vinto la guerra?

Sono in procinto di partire. Nonostante sia Pasqua, fra poche ore sarò su un aereo che mi condurrà a Cipro, una di quelle isole che ho sempre sognato di visitare: sogno mai realizzato per non lasciare la famiglia, nei giorni di festa. Anche questo era uno di quei legami che mi incatenavano al passato, che però ha imparato a tagliare. Qualche giorno fa l’oncologa mi ha comunicato che d’ora in avanti i controlli, per accertarsi che il tumore non torni, si faranno ogni cinque anni, perché al momento sono tecnicamente guarita. Arrivata a casa, ho prenotato un volo on line, per Cipro, e dopo lo ho comunicato ai miei figli. A cinquantacinque anni sono rinata. Sono libera e non più sola e abbandonata, come mi ero sentita l’estate di cinque anni fa.”

Anche per Laura, questi sono giorni di rinascita. Dalla malattia e dall’abbandono.

Marina Berti 

Cristina Ferri: “certe esperienze ti segnano”. L’impegno per la violenza sulle donne

Cristina Ferri, artista del panorama musicale lirico, ha aperto il suo cuore decidendo di aiutare le donne vittime di violenza. Il suo gesto ed il suo interesse le sono valsi un riconoscimento importante, dato da un’associazione tutta al femminile!

Cristina Ferri è una bellissima donna senese che da anni porta alto il nome della sua città, calcando i palcoscenici italiani ed europei con la sua splendida voce da soprano. Ha studiato pianoforte presso la Scuola di Musica di Siena, si è diplomata presso l’Accademia di canto lirico di Busseto nel 1995 e successivamente al Conservatorio Cherubini di Firenze.

Già insignita nel 2014 del Mangia d’Oro, medaglia al valore civile per l’impegno culturale e per aver onorato il nome di Siena nel mondo, lo scorso 25 marzo a Casciana Terme (PI) ha ricevuto il premio “Donna è”, un riconoscimento che l’ha vista protagonista sia nel campo artistico e sia in quello sociale. Ad attribuirle il premio è stata l’Associazione Idee in Movimento, un’Associazione tutta al femminile che organizza eventi a scopo benefico.

 

L’impegno nel sociale per Cristina è legato alla violenza sulle donne e deriva da un’esperienza personale che l’ha ferita profondamente. “Certe esperienze ti segnano ma insegnano anche a tirarsi su e a lanciare messaggi di speranza. Personalmente sono molto cambiata da allora, ma so di tante donne che invece continuano a convivere con i propri carnefici senza trovare la forza di dare un taglio netto a situazioni violente”.

Violenza presente sotto forme diverse, da quella fisica, a quella psicologica e verbale, a quella economica, stalking… condizioni che molte di loro sono costrette a sopportare quotidianamente senza sapere che ci sono persone e Centri Antiviolenza pronti ad aiutarle.

La comunicazione in questo caso, è fondamentale – dice Cristina – e bisogna partire dai giovani; ecco perché ho voluto fortemente predisporre un progetto di incontri da effettuare nelle scuole sia a Siena e sia in provincia; purtroppo, ci si scontra con l’aspetto burocratico che a volte è lungo e farraginoso, ma io non mi fermo! I giovani devono sapere che anche piccoli attacchi verbali possono nascondere un atteggiamento ed una persona violenta, così come commenti troppo giudicanti sull’abbigliamento non devono sminuire o etichettare, rendendo fragile ed insicuro, chi li riceve.  Imparare a dire le cose con garbo, coltivare la gentilezza ed il rispetto: piccole – ma importantissime – fondamenta per far crescere persone rispettose e aperte al confronto”.

La nostra protagonista è già stata accolta presso la Contrada di Valdimontone, lo scorso 3 marzo, insieme al Questore di Siena dr Pietro Milone ed allo Psicologo e Psicoterapeuta dr Jacopo Grisolaghi per parlare di violenza. Incontro risultato molto partecipato ed interattivo. Durante la serata è stato proiettato un video realizzato dalla stessa Cristina ed altre comparse di Siena; il cortometraggio racconta di donne che vivono in silenzio la sofferenza ed il maltrattamento dentro le mura domestiche… episodi purtroppo comuni e non dipendenti dal ceto sociale o dal livello culturale come erroneamente si pensa, ma presenti in ogni spaccato della nostra società.

Ci auguriamo che il progetto di Cristina prenda il volo al più presto perché di storie di violenza e femminicidi non ne vorremmo proprio più sentir parlare per i prossimi diecimila anni!

Per chi volesse guardare il video di Cristina Ferri: https://youtu.be/qlGcN-OiosY

Stefania Ingino