Un'immagine tratta dalla pagina Facebook di QuaViO odv

Sono le parole del professor Fabio Calabro’ (riportate dal Corriere della Sera) che e’ direttore di oncologia medica all’Istituto Nazionale dei Tumori del Regina Elena di Roma. E’ stato lui il medico di Michela Murgia. Dai suoi concetti una riflessione sulle cure palliative

Il professionista racconta di come ha seguito l’iter medico della paziente e si sofferma, in particolare, sugli ultimi momenti di vita di una persona che era pienamente consapevole del suo stato. Questa consapevolezza e’ stata data, chiaramente, dai medici che hanno saputo ben comunicare la situazione.

Su questa comunicazione il professore dice qualcosa che colpisce: “quando si dà una comunicazione corretta ad un paziente gli si regala liberta’. Le ho garantito libertà fino all’ultimo giorno, era quello che desiderava”. Ed e’ quella libertà che spetta di diritto a tutti i coloro che sono nell’ultimo ma fondamentale tratto della vita e sono pazienti da cure palliative.

Cure che si concentrano sul sintomo dando qualità e dignità di vita.

Sul concetto di dignità, a tutti i livelli, scrive qualcosa di profondo Betrice Covassi (Parlamentare Europeo). “La natura non è una “mera cornice” della vita umana, ma la vita stessa. Elaborare i grandi ideali, ma anche le vie concretamente percorribili per chi vuole costruire un mondo più giusto nelle proprie relazioni quotidiane, nel sociale, nella politica, nelle istituzioni. Una fraternità da promuovere nei fatti, ritrovando il senso e il metodo della “politica migliore” al servizio del bene comune, con al centro la dignità di ogni essere umano”. Questo concetto fondamentale vale sempre anche nel crepuscolo della vita.

Conferme giungano anche da una professionista legata, a doppio nodo, al nostro giornale: Cristina Rigacci Psicologo e Psicoterapeuta che evidenzia quanto segue.

Le riflessioni del Professor Calabrò fanno riflettere in molti sensi e che, fanno eco, almeno per me, a quelle tante volte in cui ho avuto il privilegio di sentir parlare il Professor Crocetti, delle malattie (quelle oncologiche in primis): nelle sue frasi non sono mai mancati i termini dignità, rispetto e valore.

Perché questo una malattia richiede: un nome e dei dettagli, di avere un suo senso nel “non senso” «Confrontarsi con la malattia oncologica vuol dire vivere una crisi emozionale profonda collegata all’angoscia più arcaica che ci accompagna per tutta la vita: l’angoscia di separazione, di perdita e quindi l’angoscia di morte. Una crisi che dal suo significato etimologico di pericolo può trasformarsi in una scelta che consente di dare una svolta alla propria vita. Allora il tempo della malattia può diventare il tempo dell’esperienza di sé che bambino e genitori possono fare, esperienza apportatrice di consapevolezza, di conoscenza, di crescita» (Crocetti, et al., 2012; p. 29).

Inoltre, conoscenza e continuità nella crescita sono necessarie e funzionali ad un maggiore benessere psicofisico anche in qualsiasi malattia che genera disabilità (Valtolina, 2004). Del resto già Linneo – un medico, botanico e naturalista svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi – in tempi ormai lontani scrisse “Se non conosci i nomi, muore anche la conoscenza delle cose” (“nonina si nescis perit e cognitio rerum”). Infatti, se non ci fosse conoscenza cosa potrebbe mai restare? Psicologicamente parlando, come potremmo andare oltre quelle angosce che ogni malattia comporta?

A tal proposito Cerutti (2023) specifica che è possibile, benché sia molto faticoso, arrivare a convivere con la malattia, adattandosi ad essa e, in alcuni casi, addirittura arrivare ad una serena accettazione. Serenità che non significa assenza di sofferenza, di rabbia, tristezza, sconforto e paura, reazioni (comunque presenti e inevitabili) ma che invece comporta la conservazione della voglia di vivere e di fare tutto ciò che è possibile realizzare quindi riscoprire il valore personale e soggettivo in ciò che si fa e in ciò che si è, nella propria forza affettiva, nelle proprie capacità decisionali e organizzative, nell’essere punto di riferimento per gli altri, nella propria dolcezza e comprensione, nella propria tenacia (Ibidem, 2023).

Inoltre è anche dimostrato che tacere o una malattia (come anche il non volerne parlare con gli altri familiari in primis) è il segnale di difese massive attive quindi di sofferenza e che, in quanto tale, può comportare, nei casi più estremi, stati depressivi o di ansia maggiori (Carrara, 2023). Quindi per concludere sarebbe bello, come già auspicava Biondi nel 2012, che i formatori dei nostri sanitari dessero sempre spazio a come implementare le abilità di comunicare con il paziente, gestire le comunicazioni in casi difficili e affrontare all’interno dello stesso staff curate le emozioni critiche che la cura, soprattutto quella del cancro, comporta.

Anche Papa Giovanni Paolo, a suo modo richiamò il valore di un’autentica e precisa azione di cura; riflettendo sull’atteggiamento di chi opera in tal senso disse che «la compassione, quando è priva della volontà di affrontare la sofferenza e di accompagnare chi soffre, porta alla cancellazione della vita per annientare il dolore, stravolgendo così lo statuto etico della scienza medica».

Infine, se può servire ed essere utile sappiate che anche la scrivente ha potuto iniziare ad incanalare quella rabbia e quella tristezza che una malattia genera solo quando una professoressa, alle scuole medie, le ha spiegato per filo e per segno (ovviamente con le parole consone per una preadolescente) come si chiamava quella malattia che aveva trasformato il suo corpo e cosa essa avrebbe comportato

Ricordiamolo sempre: “Spesso le ombre della notte prendono il sopravvento sul corpo. La verità è produzione di esistenza. Non è solo nella mente: è qualcosa che esiste davvero….nel corpo” (Crocetti, 2012).

 

 

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