Questa è una storia di eccezionalità. Ringrazio Sara splendida mamma di Anita, per aver accettato di scrivere una magnifica vicenda di riscatto. La sua.  Meglio quella sua e di sua figlia Anita : un sorriso unico e capelli da fiaba. Benvenuti in una magia che è fatta di sforzo fisico, impegno mentale e coraggio. Benvenuti nel mondo di Sara e Anita.

Mi è stato chiesto di essere io stessa a scrivere l’articolo su Anita Stella Carradori, pattinatrice artistica a rotelle, neo-atleta paralimpica e tra le altre cose, mia figlia.

Anita Stella Carradori sui pattini durante una gara
Anita Stella Carradori sui pattini durante una gara

Non è facile essere obiettivi parlando della propria prole e francamente in questo momento non voglio neppure esserlo; al contrario, sarò spudoratamente esaltante delle sue doti!

Anita è una ragazza albina ipovedente e già qui siamo  nell’eccezionalità, perché è una condizione genetica rara che interessa circa 1/17000 individui in Europa; oltretutto è la prima della famiglia con questa caratteristica, oltre ad essere la prima nipote sia da parte paterna che materna. Insomma il primato, a quanto pare, è nel suo destino… è stata la prima in tante cose ed ha solo 15 anni.

Tanto per non tradire la sua personale tradizione, lo scorso 14 marzo ha aperto i Campionati Nazionali ACSI Città di Riccione, prima atleta in gara, prima atleta paralimpica, per la neonata categoria Cigni, appena istituita dal CONI.

Ho voglia di raccontare questa esperienza partendo dalla premiazione post-gara: mentre Anita faceva la sua passerella fino al podio per ricevere la coppa, un paio di signore, che assistevano alla manifestazione, hanno commentato con “però poverina…”.

Io non ho detto niente, perché la mia attenzione in quel momento era per Anita, ma, dopo,  mi sono avvicinata e, parlando con altri, ho sottolineato la pochezza di una simile affermazione, che denota ignoranza e ristrettezza mentale, quindi pregiudizio.

Perché una ragazza ipovedente, che ha dovuto finora confrontarsi in gara con atlete normodotate, conquistando anche le sue coppe, ma certo dovendo impegnarsi molto più delle concorrenti dirette per restare “in partita”, finora aveva subito una sorta di iniquità nella valutazione (la componente artistica del suo sport pesa sul punteggio finale e se non hai capacità visive sufficienti a riprodurre il movimento fine in maniera corretta, sei obiettivamente in svantaggio). 

Di più, l’apertura all’agonismo di una nuova disciplina per gli atleti o aspiranti tali con disabilità è un successo per lo sport tutto e per la società in cui viviamo.

Quel “piccinina” che ho udito a Riccione, mi ha fatto provare pena e rabbia, perché l’ignoranza che ha espresso è purtroppo diffusa e restare ignoranti ci rende schiavi.

Mi chiedo, se una di quelle donne avesse avuto figli con disabilità sensoriale, come li avrebbe cresciuti? Impedendogli di esprimersi completamente? Privandoli di molte possibilità perché “poverini”? Limitando la loro libertà anche di sbagliare, di scontrarsi con le difficoltà? 

Tante volte, soprattutto negli ultimi anni, mi sono resa conto che la differenza tra ciò che Anita fa e che altri nella sua condizione non fanno sta proprio nel modo di vederla e per lei di vedere se stessa; è una ragazza estremamente brillante, testarda, corretta, buffa e con una disabilità visiva. Non è una disabile!

Voglio dire che non è solo quello, proprio come io non sono solo una madre, suo nonno non è solo un anziano… forse se smettessimo di etichettare gli individui – se non quando questo atto diviene utile e necessario per il nostro benessere (rispetto dei diritti, equità nei trattamenti, affermazione di identità negate) – molte più persone, con disabilità o meno, si sentirebbero più fiduciose delle proprie capacità.

Le allenatrici di Anita mi dicono sempre che lei è la più decisa, temeraria; ogni volta che c’è da provare un salto nuovo lei si butta, senza chiedersi se sarà in grado o meno, ci prova!

Quando si è prospettata la possibilità di inaugurare la categoria paralimpica, la Polisportiva nella persona della presidentessa, le allenatrici, io stessa, abbiamo valutato con Anita le prospettive che si sarebbero aperte e tra queste c’era la probabilità che lei diventasse un esempio per gli altri, per chi crede di non essere in grado, per chi pensa che non ci siano abbastanza spazi per esprimersi se non si è normodotati, per tutti quelli che dubitano di loro stessi, in fondo. Una cosa che è stata scritta su mia figlia recentemente è “io non ce la posso fare” non esiste! Ed è lo spirito giusto, perché se si vuol riuscire, bisogna credere di farcela, altrimenti tanto vale non tentare.

Il presupposto “non mi riuscirà” rende incapaci, non la disabilità che si può avere. E con questo non intendo dire che tutti possiamo fare tutto, sia chiaro.  Ci sono condizioni che non possiamo superare, ma questo non significa non cercare un percorso di realizzazione giusto per noi e che ci renda felici.

Sara Barabaschi

Nella foto principale Sara e Anita

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