Recentemente ha destato molta attenzione, anche tra gli esperti del settore, la messa in commercio di una bambola con la Sindrome di Down.

Gesto sicuramente significativo e di un’importanza non trascurabile che sa di inclusione e che porta con sé un messaggio di sensibilizzazione verso un tema molto importante come quello dell’educazione alla diversità/disabilità.

Anche io come psicologo dell’handicap e dello Sviluppo ci ho pensato. Forse, a tutt’oggi, ho ancora più domande che risposte e, per questo, a maggior ragione, credo sia importante parlarne e continuare a rifletterci insieme.

Innanzitutto mi sono chiesta se si può, davvero, ridurre la sindrome di Down a delle specifiche e poche caratteristiche come quelle esemplificabili in una bambola (come sarebbe anche in qualsiasi altro oggetto o gioco).

Consultando qualsiasi dizionario medico è possibile capire che quando si parla di Sindromi si fa riferimento ad un “insieme di sintomi e segni clinici che vanno a definire le manifestazioni cliniche di una o diverse malattie….”. Premesso ciò la mia domanda è: come è possibile esemplificare un quadro complesso e variegato di sintomi o caratteristiche cliniche in un unico gioco/oggetto? Ma soprattutto: come può questo unico oggetto rendere conto o essere rappresentativo della complessità di una sindrome unitamente alla complessità della soggettività di una persona, quelle down incluse, che inevitabilmente ognuno di noi si porta con sé?

In secondo luogo mi chiedo come e se sia giusto far conoscere il mondo dell’handicap solo attraverso la bambola con Sindrome di Down. Le disabilità possibili sono moltissime (malattie genetiche, disabilità neuromotorie, ecc).

L’ultima importante ricerca ISTAT condotta su territorio Nazionale (2019) ha messo in evidenza che solo in Italia le persone disabili sono 3,1 milioni (il 5,2% della popolazione italiana): la metà di queste ha più di 75 anni e sono prevalentemente donne. Sempre i dati ISTAT (2018) ci informano che con la Sindrome di Down nascono circa 500 bambini l’anno (quelle attualmente censite con questa patologia sono 38.000). Dati significativi ma non certo rappresentativi di tutto un mondo, quello dell’handicap, che non è solo riconducibile a questa specifica forma di disabilità. Sicuramente è già qualcosa, ma come e dove sono rappresentate tutte le altre patologie che possono causare disabilità?

In ultimo, e non per importanza, il mio pensiero va ai bambini che giocano.

Siamo sicuri che sia opportuno per un bambino piccolo impattare con una realtà così dolorosa come quella della disabilità magari da solo mentre gioca con il suo giocattolo senza un’opportuna e diversa mediazione da parte di un adulto? Dagli insegnamenti di Winnicott (uno dei padri fondatori della psicoanalisi infantile), sappiamo che nel primo anno di vita il bambino vive un momento di passaggio fondamentale dall’illusione che tutto gli è concesso alla delusione legata allo sperimentare che la realtà è complessa e difficile: è, pertanto, importante – per la formazione di una buona identità – che il bambino viva emozioni positive in questo passaggio dalla fase in cui sperimenta la sua onnipotenza, alla fase in cui comincia a misurarsi con il principio di realtà (Winnicott, 1971). Inoltre, il gioco è da sempre considerato un’esperienza creativa che permette al soggetto di esprimere l’intero potenziale della propria personalità, una tregua dal faticoso e doloroso processo di distinzione tra sé, i propri desideri, e la realtà, le sue frustrazioni. Solo attraverso un atteggiamento ludico verso il mondo, e solo qui, in area intermedia tra il soggettivo e l’oggettivo, può comparire l’atto creativo, che permette al soggetto di trovare se stesso, di essere a contatto con il nucleo del proprio Sé (Ibidem, 1971; Naldi, 2021).

Quindi perché non pensare a come far incontrare al bambino una realtà, come quella della disabilità, che è importante che conosca, senza “contaminare” quell’area magica e importante del gioco?

Non sarebbe opportuno far continuare a sperimentare o ricercare, almeno nel gioco,  quel mondo magico e fatato che, nell’infanzia, tutti abbiamo bisogno di vedere come tale? Riprendendo un insegnamento di Don Milani “Giustizia non è fare parti uguali tra disuguali ma dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno”. Come facciamo a sapere a priori quando per il bambino X è giusto incontrare quella certa realtà? I tempi di sviluppo sono soggettivi e variabili da soggetto a soggetto (Camaioni, 1994): questo credo sia importante ricordarlo e rispettarlo.

Buon gioco a tutti!

Cristina Rigacci

La dottoressa Cristina Rigacci
La dottoressa Cristina Rigacci

Psicologo e Psicoterapeuta, è disabile da quando aveva sei anni. Studiosa di dinamiche psicologiche sottese ad una genitorialità difficile o resa tale per la presenza di un figlio che soffre a causa di una malattia o disturbo, ha lavorato per anni con le associazioni senesi “Sesto Senso” e “Asedo” per facilitare l’integrazione di alunni con disabilità e favorire esperienze di autonomia (housing) per un piccolo gruppo di ragazzi Down. E’ tra i soci fondatori di Codini & Occhiali. 

per saperne di più

“Convivo con un corpo malmesso ma aiuto gli altri” la storia di Cristina

 

 

 

Iscriviti alla nostra newsletter per rimanere aggiornato sulle attività delle Associazioni del Territorio Senese

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi