Gli auguri a tutte le donne oggi li facciamo con le parole, splendide, di Glenda Celeste Sbardellati una giovane donna coraggiosa che sta combattendo la sua battaglia. 

A volte il ballo non finisce a mezzanotte.
E questo vale per molte cose, sia che ci stiamo divertendo o meno.

Certo, se la cosa in questione è la chemioterapia non vedi l’ora che il valzer sia finito. Io di valzer
ne ho fatti sedici, e sinceramente cominciava a girarmi un po’ la testa (per non dire altro…).

Ma siamo ancora qua, e alla fine lamentarsi non mi ha mai portato a nulla. Si, okay, magari un piantino qua e là… O una serie di lunghi pianti, da farsi asciugare i dotti lacrimali. Per fortuna ho qualche spalla su cui farmeli questi pianti.

E se non dobbiamo farcene una colpa se a volte piangiamo. Quello che succede in questi casi, l’orrore che viviamo durante questi mesi di battaglie contro noi stessi, ci mette davanti a delle scelte che non credevamo di dover mai fare.

Per quanto mi riguarda la scelta era tra l’essere succube della malattia, o nel mio caso specifico del trattamento, o l’essere superiore. A volte essere superiore non funziona, però. La tua vita si
trasforma in una strana altalena, dalla quale sai che prima o poi scenderai, perché è così che funziona, ma mentre ci sei sopra preghi soltanto di non cadere.

O di avere almeno qualcuno che ti
prende al volo. La mia personale altalena è cominciata il 7 ottobre. Mi ricordo quel giorno perché erano passate poco più di due settimane dalla prima infusione di chemioterapia. E per moltissimo tempo sarà il giorno più brutto della mia vita.

Anche peggiore del giorno della diagnosi. Perché è stato il giorno in cui, passandomi una mano tra i capelli, li ho visti cadere. Ho visto le prime ciocche andarsene e ho capito che il calvario era veramente iniziato.

Prima di allora non avevo ben assimilato quello che stava per succedere, ma in quel momento, mentre mi guardavo la mano e piangevo, in quel preciso istante ho capito che da quell’altalena sarei
scesa.

Non sapevo ancora come, ma sapevo quando. Facendo i calcoli nella mia testa, ho segnato il giorno in cui avrei finito la terapia, il primo marzo, con un pennarello rosso. E per mia grande fortuna, ho finito un giorno in anticipo.

Chissà che da quest’anno il 29 febbraio (che parliamone, gli anni bisestili a noi come famiglia hanno sempre
portato una certa sfiga) non acquisti un sapore totalmente diverso. Magari ogni quattro anni faremo una festa per ricordarmi che sono ancora viva, che sono ancora qua, che questa cosa non mi ha battuta. O forse farò io una festa a quelli che mi sono stati accanto in tutta questa giostra.

le persone care a Glenda
le persone care a Glenda

Diciamocelo, nemmeno per loro è stato tutto questo carnevale di Rio, ma se non fosse stato per loro, io forse non sarei nemmeno qui.

Certo mi ha preso a pugni, mi ha portato via sei mesi della mia vita, mi ha fatto cadere i capelli, mi ha fatto venire la nausea (vera e figurata), mi ha messo al tappeto, mi ha costretto ad imparare a
truccarmi, che a dirla tutta se qualcuno mi conosce questo è un bel miracolo, ma alla fine vincerò io.

Non è finita, nemmeno un po’, perché ora tocca ricostruire, tocca inventarsi di nuovo la vita com’era prima. Sappiamo tutti che niente sarà com’era prima, perché sia io che la mia famiglia, ne
portiamo i segni, che siano visibili, o meno, io sul corpo, loro pure nell’anima.

Noi non saremo mai com’eravamo prima, ma per ogni tassello che ci è stato tolto ne possiamo disegnare uno nuovo, uno più bello, più colorato.

E anche se per me è difficile guardarmi allo specchio in questo momento, ritrovarsi dopo mesi con quella che non è più nemmeno la tua faccia, che non assomiglia per niente all’idea di te stessa che continui ad avere nella tua testa, la vita è la cosa più importante.

La vita continua, come si dice sempre. E meno male, dico io, falla anche finire, dopo tutto quello che abbiamo passato, dammi almeno la soddisfazione di fare come dico io.

Perché da adesso in poi, si fa come dico io, non come dice “lui”. Si fa che abbiamo finito, la chemio è finita, i viaggi in ospedale due giorni a settimana sono finiti. Il catetere venoso che mi arrivava
dentro la vena cava non c’è più, e da adesso in poi si fa a modo mio. A modo nostro. Ci riprendiamo quello che ci hanno tolto.

Non sarà facile, e non sarà breve. Ma l’altalena si è fermata e noi scendiamo. E ricominciamo a camminare.

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